
LA FORMAZIONE
Giambattista aveva i primi insegnamenti dagli zii materni, Pietro, Biagio, al quale era particolarmente legato e Ortensia Giannone
All’età di dodici anni, il 1846, veniva mandato per proseguire gli studi, insieme al fratello Francesco nel Collegio di S. Adriano in San Demetrio Corone, “vivaio di spiriti indomiti e ribelli”. Lo stesso anno il Procuratore del Re dichiarava che i professori della “Officina del Diavolo” non erano altro che “settatori e divulgatori degli infernali disegni”, contro l’ordine Borbonico.

Dal Collegio di S. Demetrio passa con i fratelli al Seminario di Bisignano. Giambattista, espulso ritornava in famiglia, e vi rimaneva sino alla repressione dei moti del 1848.
Napoli: Collegio di San Carlo all’Arena.
Per continuare gli studi veniva mandato a Napoli, nel Collegio di San Carlo all’Arena, retto dai padri Scolopi. Qui una notte, mentre tutti i compagni dormivano, veniva sorpreso nella lettura dei canti del Berchet, allora sottoposti a rigida censura e veniva espulso dal collegio. Andava a vivere col fratello Francesco, che frequentava l’Università di Napoli.
Si iscriveva all’Università al corso di Metafisica, compiuto il quale ritornava ad Acri alla fine del 1849.

A determinare il suo orientamento politico e sociale contribuivano “gli ammaestramenti” ricevuti nel Collegio di S. Adriano, come “l’amore per la libertà e lo sdegno per coloro che fanno soffrire; l’insofferenza per la prepotenza dei grandi e per la cupidigia dei corrotti,” ma anche, secondo il senatore Francesco Spezzano la vicinanza ai sacerdoti Vincenzo Padula e Nicola Romano, l’eccidio dei giacobini di Acri compiuto dai briganti nel ferragosto del 1806 e la fucilazione dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera avvenuta nel Vallone di Rovito (CS) il 25 luglio 1844.
Terminati gli studi, ritornava ad Acri, non con la veste di abatino come sognavano i genitori, ma col suo cappello alla calabrese, simbolo della resistenza all’ oppressore e segno di riconoscimento tra i cospiratori. Riprendeva a frequentare i suoi amici, tra i quali Vincenzo Julia e Nicola Romano, e si ritrovavano ogni giorno davanti al monastero dei Cappuccini e “là si discorreva di lettere, e un pochino di politica”.
I Calabresi durante i moti del 1844 a Cosenza, adottarono un cappello di foggia strana, per quel tempo, tronco conico, che in breve diventa il simbolo della resistenza all’ oppressore e segno di riconoscimento tra i cospiratori. Le polizie borboniche, e papalina lo proibiscono ritenendolo “sovversivo”. Nel 1848 a Milano anche le donne, nei salotti liberali, presero ad indossarlo in omaggio a quelle indomite e lontane contrade in lotta contro il Borbone. Gli Austriaci, con decreto del 15 febbraio 1848, del generale della polizia di Milano, ne proibiva l’utilizzo, ma i milanesi, sbeffeggiando il decreto, continuarono ad indossarlo apportandovi delle piccole modifiche. (spostato a destro va inserito sotto il Cappello)
Adottato dai Calabresi durante i moti antiborbonici del 1844, diventa il simbolo della resistenza all’ oppressore e segno di riconoscimento tra i cospiratori. Le polizie borboniche e papaline lo proibiscono ritenendolo “sovversivo”. Nel 1848 a Milano anche le donne, nei salotti liberali, presero ad indossarlo in omaggio a quelle indomite e lontane contrade in lotta contro il Borbone. Gli Austriaci, con decreto del 15 febbraio 1848, del generale della polizia di Milano, ne proibiva l’utilizzo, ma i milanesi, sbeffeggiando il decreto, continuarono ad indossarlo apportandovi delle piccole modifiche.


Napoli
Il 2 gennaio 1855 moriva la sorella Mariannina che aveva sposato da appena 4 mesi Angiolo Salvidio. I genitori nel vederlo affranto da un grande dolore, lo rimandavano a Napoli, per cercare di alleviare la sua tristezza.
Partiva dal paese, per mai più rivederlo, nell’aprile del 1856. Andava ad abitare in due camerette al sesto piano di un palazzo in via Forno Vecchio, alla Pignasecca. Riprendeva a frequentare i vecchi amici albanesi e a seguire le lezioni del suo maestro Vincenzo Padula.
“La sua casa, era il convegno del fiore della gioventù calabrese che tra gli studi di anatomia e delle Pandette meditava i dolori della patria”. Fra i più assidui frequentatori c’erano Agesilao Milano di San Benedetto Ullano (CS), conosciuto nel collegio di San Demetrio Corone e Attanasio Dramis di San Giorgio Albanese.
Agesilao Milano e l’attentato al Re Ferdinando II.

Convinto della sua decisione, di attentare alla vita del Re e non volendo più attendere, l’8 dicembre 1856 il Milano, preparava l’attentato. Sapendo che il Re avrebbe partecipato alla parata dell’Immacolata, si metteva a capofila del suo battaglione e quando il Re era vicino, gli si avventava contro con la baionetta, riuscendo solo a ferirlo. Arrestato veniva condannato a morte per impiccagione che veniva eseguita il 12 dicembre.
Intanto le forze dell’ordine iniziavano la caccia a quanti Calabresi erano in Napoli.
Giambattista Falcone e il suo amico Antonio Nociti di Spezzano Albanese, ricercati e sui quali la polizia aveva posto anche una
taglia, con l’aiuto di influenti patrioti, riuscivano a trovare un rifugio momentaneo e poi si imbarcavano per Malta.
Giambattista da Malta, il 26 marzo del 1857, scriveva la seguente lettera a suo zio Biagio Giannone, «Veneratissimo zio – Scrivo a voi direttamente, conoscendovi solo capace a comprendermi… […] Basterà dirvi che io vivea in un continuo stato febbrile che m’impedia per sino di studiare; e che spesso mi son privato di tutti i mezzi anche necessari, per usarli a questo santissimo scopo. Insomma ho agito, come si suole sotto l’incubo di una prepotente passione, che non può descriversi, ma solo d’esser compresa da colui che l’ha provata.»
Sull’isola conosceva e stringeva rapporti di amicizia esuli illustri, tra questi il mazziniano Fabrizi, con il quale iniziava a collaborare per preparare una insurrezione nel Napoletano.
Da questi aveva l’incarico di recarsi a Genova, per informare il Mazzini, sulla necessità di evitare o comunque rinviare la spedizione che stava preparando con Pisacane.
La Spedizione di Sapri
Lo stato Borbonico in crisi, nel giugno del 1857, spingeva Pisacane, incoraggiato dal Mazzini, a preparare a Genova, la spedizione che doveva partire dalle provincie meridionali, convinto che dopo decenni di rivolte, e dove la popolazione stanca dalla miseria e dalla tirannide, era pronta ad insorgere.
Il comando sarebbe stato affidato a Carlo Pisacane, “valoroso ed esperto nelle cose di guerra” affiancato da due giovani calabresi Giovanni Nicotera e Giambattista Falcone.


Carlo Pisacane, convinto della necessità di un’azione rapida, che evitando lunghe e inutili marce e scontri, doveva puntare rapidamente sulla capitale, individuava il punto di sbarco, nella provincia più vicina a Napoli, il Cilento, zona aspra e montuosa, culla del ribellismo meridionale e per tale ragione definita dalla polizia borbonica “terra dei tristi”.
Nel mese di maggio a Genova, sotto la direzione di Mazzini, si erano svolti una serie di incontri per definire gli ultimi preparativi della spedizione. Bisognava convincere gli incerti; stilare proclami e fare manifesti; raccogliere fondi; reperire imbarcazioni e armi. Arrivava anche la giornalista inglese Jessie White, entusiasta ammiratrice del Mazzini, per assicurare al suo giornale il Daily News, corrispondenze sui moti insurrezionali, e far guadagnare ad essi la simpatia del pubblico inglese. Tramite lei, gli organizzatori cercavano anche di ottenere la partecipazione di Garibaldi, che convinto della non riuscita, aveva rifiutato
La notte del 4 giugno, sempre a Genova gli organizzatori della spedizione si riunivano segretamente per mettere a punto il progetto.
Subito, cominciavano i primi problemi con la perdita di un carico d’armi che doveva rifornire la spedizione.
Prima della partenza, fissata per il 25 giugno, Pisacane, giorno 12 l’intero “corpo” della spedizione, i quali a conclusione della riunione rivolgevano il seguente appello al popolo.
Ai fratelli d’Italia:
<< Se cadiamo non ci piangete. Noi diciamo coi fratelli Bandiera: la nostra morte sarà più utile alla causa italiana che non una vita sterilmente prolungata. Se non ci è dato più di rivedere le nostre rive bagnate dal mare, date una carezza di affetto agli orfani bambini che lasciamo tra voi; educateli nella religione della patria; raccogliete la bandiera che nel morire ci sarà sfuggita di mano; e se, libera l’Italia dalle Alpi al mare, vi sovverrà dei morti fratelli, ergete allora non prima, a coloro che per la patria hanno incontrato la morte, una tomba. Una tomba in terra libera e per mani libere, consolerà le anime nostre. Viva l’Italia >>.
Testamento politico di Pisacane
Poi Pisacane si recava dalla White,
che aveva preso parte attiva alla preparazione dell’impresa, le consegnava alcune carte alle quali teneva molto e il suo Testamento politico, significativo delle sue idee e del suo stato d’animo in quel momento.
Nel Testamento, consapevole che l’impresa era “arrisicata” chiariva che voleva manifestare al paese le sue opinioni, “onde combattere la critica del volgo, sempre disposto a far plauso ai vincitori e maledire i vinti. […] Io stimo colui che approva il congiurare e non congiura egli stesso: ma non sento che disprezzo per coloro i quali non solo non vogliono far nulla, ma si compiacciono nel biasimare e maledire gli uomini d’azione
[…] Se giungo al luogo dello sbarco, che sarà Sapri nel Principato citeriore, io crederò aver ottenuto un grande successo personale, dovessi anche perire sul patibolo. Semplice individuo, quantunque sia sostenuto da un numero assai grande di uomini generosi, io non posso che far questo e lo faccio. Il resto dipende dal paese e non da me. Io non ho che i miei affetti e la mia vita da sacrificare a tale scopo e non dubito di farlo. Io sono persuaso che se l’impresa riesce, otterrò gli applausi generali; se soccombo, il pubblico mi biasimerà.”
Il 19 dello stesso mese Pisacane indirizzava una lettera al Comitato di Napoli sollecitandolo a fare gli ultimi preparativi perché un rinvio di quindici giorni poteva essere accettato, una dilazione prolungata o indefinita sarebbe sembrata un tradimento.
E qui rivolgeva una violenta invettiva a Fanelli e a tutto il Mezzogiorno, divenuto nella mente del Pisacane il fulcro della rivoluzione italiana:
La partenza
Al tramonto del giovedì 25 giugno del 1857 “Il Cagliari”, vapore della Compagnia Rubattino, con a bordo il possidente Pisacane, l’avvocato Nicotera, e il signor Giuseppe Capatti, alias Falcone, chi diretto a Tunisi, chi in Sardegna, salpava da Genova.
Due ore dopo, con il primo buio, i rivoltosi indossati camicia e berretto rosso, al grido di “Italia Libertà Repubblica”, facevano irruzione nella sala macchina e si impadronivano, senza colpo ferire della nave. L’equipaggio non opponeva resistenza, e collaborava con i patrioti.
Dopo una giornata di navigazione tranquilla e veloce, il pomeriggio del sabato 27, arrivano a Ponza. L’isola, che era collegata alla terraferma solo mediante il raro traffico di pescatori, viveva nel più completo isolamento. La popolazione, tolti i pescatori, i pochi artigiani e i contadini, era prevalentemente formata da militari, in massima parte in punizione per i reati più svariati, e da civili relegati per misura di polizia o per scontarvi lunghe pene.
Sbarcati a Ponza, “veniva poi occupato il posto di guardia della caserma, assaltata la prigione e liberati i prigionieri. […] molti relegati diedero l’assalto a case private chi per impadronirsi di armi e di oggetti di vestiario e chi di viveri, mentre gli “esteri” requisivano pane, vino e soprattutto legna non avendo il Cagliari carbone sufficiente.
Pochi i relegati politici che si imbarcarono, convinti che l’impresa era irrealizzabile, e anche perché, provavano ripugnanza ad unirsi con i condannati comuni che invece accorsero in massa, attratti dall’idea della libertà, tra questi c’era anche l’acrese Reale Raffaele.

Lo sbarco Sapri. Torraca. Fortino di Cervara. Casalnuovo Padula.
Sull’imbrunire di domenica 28 giugno, il “Cagliari” giungeva in vista del Golfo di Policastro e si avvicinava per facilitare lo sbarco a Sapri nel luogo detto “Banchina delle Camerelle” che iniziato alle otto di sera, terminava due ore dopo favorito dal chiarore lunare.

Intanto il regio giudice di Vibonati, Gaetano Fischietti, che già da tempo aveva avuto l’ordine di sorvegliare le coste, correva a Sapri, riuniva i pochi urbani, li mandava incontro ai rivoltosi, che riuscivano a metterli in fuga e a farne prigionieri alcuni.
Dopo questo brevissimo combattimento i capi iniziavano a gridare la parola d’ordine: <L’Italia per gli Italiani>, il grido veniva ripetuto più volte, ma nessuno rispondeva con la parola convenuta <Gli Italiani per essa>, nessuno si presentava. “In vece di una gente che salutasse con festa, il vessillo della libertà trovarono un paese atterrito, anzi una terra di morti. Imbruttiti allora i popoli nel servaggio, e assuefatti alle catene erano miseramente caduti in uno stato d’indolenza e d’inerzia da essere insensibili ad ogni affetto elevato e gagliardo.”
L’insurrezione conquistava, così una Sapri buia, deserta, silenziosa, i cui unici segni di vita sono alcuni ragazzi curiosi, alcune donne dietro le finestre e un’osteria affollata. Solo un vecchio pregiudicato sembra optare per gli stranieri sovversivi.
Torraca
Esaurita l’azione di Sapri, senza alcun risultato apprezzabile e atteso inutilmente i rinforzi, Pisacane si muove alla volta di Torraca, un piccolo centro agricolo, dove arrivano alle prime luci dell’alba di lunedì 29, e trovano persone intente ai preparativi per la festività di San Pietro. Pisacane ne approfittava per leggere un proclama nella piazza principale
“Cittadini! È tempo di porre un freno alla sfrenata tirannide di Ferdinando II. A voi basta volerlo. L’odio contro di lui è universalmente inteso. L’esercito è con noi. La capitale aspetta dalle provincie il segnale della ribellione per troncare in un solo colpo la quistione. […] Noi abbiamo lasciato la famiglia ed agi di vita
per gettarci in una impresa che darà il segnale della rivoluzione, e voi ci guardate freddamente, come se la causa non fosse la vostra. Vergogna a chi potendo combattere non si unisca a noi, infamia per quei vili che nascondono le armi più tostoché consegnarcele. Su dunque cittadini cercate le armi nel paese e seguiteci. Viva l’Italia”.
Terminato l’appello, nessuno si muoveva per prendere le armi, nessuno seguiva i rivoltosi, che riprendevano il cammino verso Fortino di Cervara, nel cuore del Cilento, dove giungevano alle 22 italiane.
Qui ancora una volta, letto il proclama, i Trecento quando lasciano il paese, restavano trecento! Sapri, Torraca, Casalnuovo avevano amaramente deluso le aspettative di Pisacane, Falcone e Nicotera!
Proseguivano la marcia e in serata arrivavano a Padula, dove si era sempre sostenuto esservi la possibilità di avere rinforzi e aiuti. Ma anche qui il più completo e amaro disinganno, salvo sporadiche simpatie, l’indifferenza era assoluta.
Alcuni che a Ponza si erano uniti ai rivoltosi, disertavano e si costituivano alla legge.
Alle prime luci del mattino del 30 giugno, le sentinelle di vedetta segnalano l’avanzata delle truppe del Borbone.
Pisacane e i suoi si preparavano alla resistenza armata. Non nutrivano speranze di vittoria dovendo affrontare quasi duemila soldati e ben armati, ma la segreta speranza che gli avversari potessero fare causa comune con i liberatori.
Poco prima di mezzogiorno, truppe regolari, gendarmi e guardie urbane, iniziavano ad attaccare gli insorti che cercavano di uscire dall’abitato per raggiungere la Certosa, strategicamente più riparata. La resistenza iniziale si tramutava, ben presto, in ritirata. Per le vie del paese e per la campagna circostante c’era una vera e propria caccia all’uomo.
I caduti erano 50. Il giorno successivo i cadaveri venivano ammucchiati e bruciati davanti la chiesa della S.S. Annunziata.
Con questo massacro, la spedizione era praticamente finita, ma l’epilogo si aveva il giorno dopo a Sanza

Sanza
“I fuggitivi, con i tre capi alla testa si dirigono verso il centro di Buonabitacolo. Alle soglie del paese trovano schierate le guardie urbane, e sono costretti a prendere la via dei monti verso Sanza. Non hanno, ormai, alcuna speranza; sono stanchi, laceri, e affamati, trascorrono la notte nei boschi, in attesa dell’alba e della morte che ormai sentono vicina. All’alba, la guardia urbana di Sanza, al comando del sottocapo Sabino Laveglia, rientrata la sera precedente da Padula, veniva avvertito che gli insorti si avvicinava al paese.
“A detta del Laveglia stesso, un millantatore che vede giunto il momento di farsi strada in qualche impiego governativo, egli, appena avvistatili, diede ordine di aprire il fuoco al grido di «Viva il Re», mentre i rivoltosi, gridando «Viva l’Italia e la libertà» risposero scaricando “un’alluvione di fucilate”. Niente di più falso perché quel centinaio di infelici, dopo l’eccidio di Padula avevano portato con sé dei fucili ma non avevano che poche cartucce, come è altrettanto falso che non vi fu uno scontro che durò dopo tre o quattro ore di fuoco perché non vi fu alcun ferito o morto tra la popolazione o tra gli urbani. Pisacane e Falcone venivano uccisi.
Pisacane e Falcone massacrati o si suicidarono?
Sulla morte dei due ci sono tesi discordanti. Alcuni sostengono che siano stati uccisi, altri che siano stati massacrati, altri che si siano suicidati, certo è che per il grande caos che ci fu nell’eccidio niente di sicuro si può stabilire.
Leopoldo Cassese, ritiene veridica la versione del sottocapo Laveglia e del gendarme Inter, anche se millantatori, che si attribuiscono entrambi il merito di aver ucciso Pisacane e Falcone. Intanto appena iniziata la sparatoria, il farmacista Don Filippo Greco Quintana corre alla torre campanaria, ne fa sfondare l’uscio, non potendo rintracciare la chiave, e fa suonare le campane a martello come per incombente pericolo.
A tale richiamo tutta la plebaglia di Sanza accorre chi armata di scure, chi di ronche di coltelli e perfino di forbici, al grido di «Viva il Re» si avventa contro i rivoltosi. Le scene di terrore del giorno innanzi a Padula, di cui furono protagonisti i Cacciatori; si ripetono a Sanza ancora più truculente e bestiali, ad opera di donne ragazzi e vecchi presi nel vortice di una collettiva follia omicida. Caduto Pisacane, cade poco dopo Falcone, giovane romantico ed avventuroso, altri affidano alla fuga la propria salvezza.
Nicola Romano sostiene che Falcone e Pisacane furono massacrati dalla plebaglia inferocita e riporta così l’avvenimento:
“Il mattino del 2 luglio, scorsero Sanza da vicino, e a quella volta mossero i pochi sopravvissuti alla strage. Pareano ombre vane anziché gente viva; e Giambattista Falcone, cadde più volte esinanito di forze lungo il cammino, e fu mestieri portarlo in su le spalle, e ristorarlo di poche fragole, che i pietosi compagni raccolsero fra quei folti cespugli. Giunti presso le mura si traggono il cappello e l’agitano in segno d’amistanza e di pace, li chiamano fratelli; ma qual forza e significato ha questa santa parola tra torme di cannibali avidi di gavazzare nel sangue umano? Una grandine di palle fu la risposta al fraterno saluto, e mentre le campane suonavano a stormo, una rabida plebaglia armata di scuri, di ronche, di randelli, di spiedi prorompe dall’abitato con urla e grida si orrende che parean torme di belve feroci e non uomini. E perfino le donne, le donne istesse! gareggiano coi mariti in ferocia e nella sete del sangue, incitate alla strage dalla parola e dall’esempio di un in degnissimo prete uno di quei sozzi e ribaldi chircuti, che tante volte in nome della religione e di Dio spinsero la crudele e insensata plebe a fraterni massacri. […]
E accanto a Carlo Pisacane giacea resupino Giambattista Falcone, ferito alla tempia e nel petto, con i lunghi capelli bruttati di polve e di sangue, con le guance discolorate e languenti, e solo negli occhi semiaperti ed immoti pareva alitasse ancora un avanzo di vita, in atto di mandare l’ultimo addio alla povera madre, ai fratelli lontani. E solo a raffaccio di tanta barbarie, e a memoria di cotanto egoismo sopravviveva alla strage Giovanni Nicotera brutalmente ferito,”
La versione del suicidio è sostenuta dal relatore del Congresso di storia del Risorgimento italiano, del 1960, che negli atti è riportato quanto segue, “In località San Vito di Sanza, nei pressi del monastero di San Francesco, nella carneficina consumata da una folla imbestialita, Battistino Falcone, visto Pisacane cadergli vicino suicida, alza l’arma contro se stesso e cade riverso sul corpo del comandante”
La stessa tesi è sostenuta in un documento, conservato presso l’Archivio della Famiglia Iulia, redatto da Antonio Iulia col titolo “Notizie su G.B. Falcone dettatami dal fratello Francesco il 1888”: […] che riporta,
“Quando G.B. Falcone si vide accerchiato dai nemici, allora decise di suicidarsi, e si ferì, con l’unica cartuccia che gli era rimasta, alla tempia destra.” Al margine sinistro del foglio scritto a mano da Antonio Julia è scritto: “Tutto ciò mi riferì nel luglio 1888 Francesco Falcone, fratello dell’eroe.”
Anche Nello Rosselli sostiene che Pisacane e Falcone si siano suicidati, infatti scrive, “Lo colpirono (Pisacane) di fucile al fianco. […] Disperatamente deluso, solo nell’anima, tra gli urli selvaggi di quelle furie, e il bestemmiar delle vittime […] volle morire di sua mano. Gli erano quasi sul capo, roncole, falci, spiedi, pronto ad abbatterlo come belva famelica, calata dai monti a devastare gli ovili, impugnò fermo la sua pistola, e con un colpo si sottrasse allo scempio. Falcone, il più giovane che gli era accanto e che a malincuore aveva obbedito al suo ordine di non resistenza, vistolo cadere, si uccise a sua volta. […]
Ultimata la strage i poveri corpi non furono neppure sepolti, ma in omaggio al preteso interesse pubblico, vennero bruciati in un immenso rogo. Solo, inumato, si disse Pisacane, per volontà di quel Musitano, memore di essere stato alla Nunziatella, vent’anni prima suo compagno di studi.
Ad Acri veniva arrestato il padre di Giambattista Falcone che “chiuso nelle carceri di Acri, ottenne dalle autorità locali di passare clandestinamente le notti in casa sua.
E’ mestiere che dica tale specie di favori non accordarsi gratis et amore? Ma sia detto ad onor del vero, con i suoi quattrini non si riusciva all’intento se all’opera non ponea mano il sig. Baffi Gennaro, ispettore generale in quel tempo delle regie Sile, e cugino di Falcone”.
Pisacane e Falcone, pur sapendo di non poter vincere, divennero col sacrificio delle loro vite i precursori dell’Unità d’Italia.
I responsabili dell’eccidio verranno condannati a morte nel 1860 quando, “le schiere garibaldine, giunte nel Vallo di Diano, vollero vendicare la morte di Pisacane, punendo quelli che la voce pubblica accusava come esecutori materiali del delitto. Sabino Laveglia, don Filippo Greco Quintana, Domenico Laveglia e Giuseppe Citera, furono difatti arrestati, e poi l’8 settembre messi a morte nelle carceri circondariali di Sanza.”

Giambattista Falcone nel ricordo di: Vincenzo Padula; Nicola Romano; Antonio Julia; Beniamino Feraudo; Salvatore Scervini; Pasquale Scervini; Filippo Greco Michele Capalbo; Mariannina Giannone
Inaugurazione del monumento a Giambattista Falcone in Piazza Vittorio Emanuele
Il Monumento

A Battista Falcone Che con Nicotera e Pisacane Compì la gloriosa spedizione di Sapri Morto eroicamente a Sanza Il 2 luglio 1857 Nell’età di anni 21 Municipio e Cittadini.
“Ad esempio della gioventù
Questo monumento
Eressero”
Il giorno dopo, nel Municipio alla presenza del prefetto Silvagni veniva conferita allo scultore Scerbo la cittadinanza onoraria e si deliberava che ogni anni si sarebbe tenuta la commemorazione di Giambattista Falcone.
Ma poi, il Consiglio Comunale del 1° maggio del 1893, nel deliberare le somme per la festa commemorativa del 2 luglio del martire di Sapri Gianbattista Falcone, e l’elargizione del pane ai poveri, stabiliva che per l’avvenire la commemorazione doveva celebrarsi ogni 5 anni, perché ripetendosi ogni anno avrebbe perso di prestigio.[1] Purtroppo, veniva, poi dimenticata.
Il monumento sarà ritenuto, nella compilazione dell’elenco dei monumenti degni di essere conservati fatta dal Comune il 31 maggio 1902, il solo ad avere pregi artistici.
Dopo l’Unità d’Italia molti cippi e monumenti furono eretti e molte lapidi furono posate in onore di Carlo Pisacane, mentre del giovane eroe Giambattista Falcone, suo luogotenente, fu fatta menzione, solo nella lapide collettiva dedicata ai “trecento giovani e forti”, posta a Padula, in occasione dell’anniversario del tragico epilogo della Spedizione di Sapri.
Il sindaco Vincenzo Sprovieri che amministrava il Comune di Acri da 1861-1884, stese un pesante velo sul nome di Giambattista Falcone, ma anche le altre amministrazioni comunali e i Podestà del ventennio fascista, non si ricordarono di lui.
Solo nel 1957, anno del 1° centenario fu degnamente ricordato dall’Amministrazione Comunale.
Nessun cenno neppure da parte del suo compagno Giovanni Nicotera, che, divenuto deputato, nel 1872, aveva fatto erigere nel cimitero di Napoli, un monumento a Pisacane.
Nicola Romano: “Il velo caduto sull’eroe acrese”
Nicola Romano, che, nel 1863, pubblicava “Discorso biografico sul martire di Sapri Giovan Battista Falcone seguito da un canto”, evidenziando, già allora, il velo caduto sull’eroe acrese. Infatti scriveva,
“So che a taluni la memoria dei virtuosi è una amara spina che li tribola; ma perché macerarsi sotto il peso di una prepotente invidia e consumare i giorni nell’ozio con la turba dei gaudenti invece di seguirne l’esempio e ricalcare alacremente le loro orme? Il cammino della gloria non è sparso di fiori, ma irto di impedimenti e faticoso… Chi ha la forza di correre lunghesso alla meta si abbia la benedizione dei secoli. Io sento per questa rara progenie un culto quasi divino, e una febbrile indignazione col mondo dispensiero, di lodi fraudolento, e cieco rimuneratore nell’economia della giustizia distributiva.
E si chiedeva:
“Perché noi Calabresi versiamo fiori e lacrime sulle ceneri dei Bandiera, e neanco una parola di ricordanza al conterraneo Giambattista Falcone? Ei sono degni di riverenza quei martiri italiani che fuggiti alle Austriache bandiere decisero nella terra dei Bruzi ad immolare sull’altare della patria le loro vite; ma degna eziandio che si onori di calde lagrime, e di lodi perenni è la memoria del giovinetto Calabrese che triunviro con Nicotera e Pisacane in quell’eroico momento venia con essi a gittare in faccia al tiranno il guanto di sfida […].
La spedizione di Sapri fu l’aurora del nostro risorgimento, il sangue dei suoi martiri il germe che fruttò Marsala […] Eppure che avanza di tanto esempio? Un silenzio di morte cuopre dalle fredde ali la memoria di quei prodi, come se il ricordarli gittasse il rossore in viso alla terra che li produsse! […]
Ma il velo che si è tirato sul nome del cittadino ed amico io lo rimuovo sdegnosamente. Ma io favellerò di lui una parola breve, ma piena di verità, e di affetto; e suoni pure infruttuosa come in mezzo al deserto; l’anima mia sarà paga di compiere il suo mandato sciogliendo un antico voto all’amicizia, un tributo alla riverenza della patria, un inno benedetto ai valorosi”.
Il solo a ricordarlo, anni dopo, era Antonio Julia, con due articoli pubblicati su vari giornali, di cui era il corrispondente da Acri.
Infatti, nel febbraio del 1914, scriveva al Direttore del “Giornale d’Italia”, per segnalare che, in un articolo di Angelo Mongoli, pur riconoscendogli di aver fatto “opera degna di encomio nel ricordare con entusiastiche parole la Spedizione di Sapri”, non aveva fatto alcun cenno al martire calabrese.
In occasione del 1° Centenario della morte, il 19 gennaio 1957, l’Amministrazione comunale, guidata dal senatore Francesco Spezzano, deliberava l’organizzazione delle onoranze celebrative per l’eroe Battista Falcone, per la data del 14 luglio. Anche, negli anni ‘70, con l’istituzione ad Acri di varie scuole superiori, tranne qualche rara eccezione, lo studio della spedizione di Sapri e l’approfondimento sul giovane eroe acrese venivano trascurati insieme con la storia locale, ignorata da molti insegnanti.
Solo nell’anno scolastico 1998-1999, durante la presidenza del prof. Rolando Perri, il Consiglio d’Istituto dell’ITCG di Acri, sulla base della relazione presentata dalla prof.ssa Maria Gabriella Chiodo, deliberava la intitolazione della scuola a G. Falcone, col parere favorevole del Collegio dei Docenti e dell’Ufficio Scolastico (C.M. n. 313 del 12 novembre 1980), assumeva la denominazione di Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “G. Falcone”.
Nell’A.S. 2007-2008, per il 150° della morte di Giambattista Falcone, l’ITGC di Acri, a lui intitolato, nell’ambito del Progetto MIUR “Scuole Aperte”, affidava alla prof.ssa M. G. Chiodo un seminario di studio e di ricerca su “Giambattista Falcone un eroe tra storia e memoria”, al quale aderiva il Liceo Scientifico con le classi del prof. G. Scaramuzzo. Il seminario si concludeva con la visita nei luoghi della Spedizione, Padula, Sapri e, infine, a Sanza, nei pressi del cippo eretto in onore di Carlo Pisacane, con la posa di una lapide, in ricordo del martire acrese Giovan Battista Falcone, suo luogotenente.





Molti anni dopo, l’Amministrazione comunale, presieduta dal sindaco Nicola Tenuta, con delibera del Consiglio, in data 25 maggio 2016, approvava il Regolamento per l’organizzazione e il funzionamento del Museo civico Risorgimentale “Giovan Battista Falcone”, con la “finalità e missione […] di preservare la memoria del contributo fornito al movimento risorgimentale da Giovan Battista Falcone e da altri patrioti […] e di promuovere, diffondere e valorizzare la cultura e la storia d’Italia e del periodo risorgimentale ed in particolare dell’Italia meridionale, della Calabria e della città di Acri.”
Tuttavia, solo con delibere di Consiglio del 5 luglio e del 2 agosto 2018, l’Amministrazione comunale, col sindaco Pino Capalbo, ha dato effettivamente vita al Museo, nominando, prima, i
rappresentanti consiliari in seno al Comitato di Gestione, e poi, in data 4 settembre, “per le indiscusse competenze relative alla finalità del Museo”, in qualità di Presidente del Comitato di Gestione, il professor Giuseppe Scaramuzzo.
Superando problemi di varia natura, si è proceduto all’allestimento in vista dell’apertura ufficiale della sede, in un’ala del Palazzo “Sanseverino-Falcone”.
Il Museo è stato allestito con la finalità di illustrare alle nuove generazioni, il contributo degli acresi al Risorgimento italiano, e alle guerre del Novecento di cui si conferma la presenza, con il loro tributo di morti, feriti e prigionieri; di recuperare e diffondere sempre più il locale patrimonio storico come “BENE COMUNE”, perchéuna Comunità senza memoria storica è come un albero senza radici e senza linfa, come tale, destinata a scomparire, restando priva di senso di identità e di appartenenza.
Dovere precipuo delle istituzioni politiche e culturali è quello di promuovere la conoscenza della storia, se hanno a cuore la crescita democratica della propria comunità, perché senza memoria del passato non ci può essere consapevolezza del presente e non ci può essere progetto per il futuro.
La conoscenza storica fornisce, infatti, quella coscienza critica, che impedisce di trasformare gli esseri pensanti in “canne al vento”, e, come gli ignavi danteschi, di schierarsi di volta in volta dove sventola la bandiera di turno, e di seguire “l’istinto del gregge”.
I popoli senza memoria, per ignoranza assoggettati al negazionismo e a fallaci revisionismi, sono portati a prediligere e sostenere dittature, autoritarismi e sovranismi, i popoli civili e virtuosi nutrono con la memoria la difesa della libertà e della democrazia.